mercoledì 16 giugno 2010

Sono a Parigi

Sono a Parigi da meno di due ore e già mi sento addosso un’eccitazione incontrollabile, che non si traduce nella reazione fisica più comune e diffusa ma in uno stato di attenzione mentale mai sopita, come se da qualsiasi angolo potesse spuntare un’occasione sensuale irripetibile. Sarà la fama che questa città s’è costruita nei secoli, sfrenata e libertina; sarà l’improvvisa sensazione di vita brulicante che rinasce appena uno ci mette piede; saranno le frotte di ragazzine in vacanza, dall’America o dall’Olanda, che vanno in giro per il cinquième arrondissement ridendo estasiate e quasi sembra di vedere i prumi succhi che colano dalle loro fichette e si spargono sui marciapiedi in un labirinto di piaceri promessi che cerco d’inseguire e nel quale immancabilmente mi perdo, visto che alla fine non attacco mai discorso con nessuna – ma mi limito a guardarle e desiderarle e sospirare inerte mentre passo al loro fianco.

E’ per questi stessi motivi che ami Parigi anche tu? Vedi i maschi, li senti, li desideri e li insegui – o te ne senti inseguita ovunque, nelle strade più luminose e negli angoli più bui?

Non lo so. Io amo Parigi soprattutto per le negre, che qui prendono un’aria di sovrana irraggiungibilità mentre sembrano crescere di numero (sono tantissime, sono innumerevoli, sono sempre di più), di altezza (sembrano torreggiare sul mio povero ego mentre mi passano accanto, ingiungendomi mute dal loro sommo di non allungare la mano quel tanto, pochissimo, che basterebbe a sfiorarne le carni) e di stazza (sembra che in proporzione guadagnino seni e culi di dimensione inenarrabile; diventano delle Veneri ancestrali che ondeggiano per strada traballando sotto il peso di queste zone erogene che le fanno quasi parodia di una femminilità assassina).

C’è di fronte a me – sono seduto ai tavolini esterni di un caffè all’imbocco del boulevard Saint Michel – c’è di fronte a me una negra sola con due bicchieri d’acqua sul tavolino. Al polso destro porta un bracciale rosa e con la mano si accarezza i capelli quando non controlla i messaggi sul blackberry e scrive qualcosa che non scoprirò mai nell’agendina in pelle. Indossa una giacca estiva sotto la quale porta un vestitino violetto che le arriva a mezza coscia. Le gambe sono accavallate. Ai piedi ha dei calzoni con dei lacci che le salgono fino al polpaccio; il tacco non è molto grande ma fa venire voglia di andare lì a leccarglielo, così, davanti a tutti, sperando che si decida a infilarmi in bocca anche le punte dei piedi che sporgono di mezzo centimetro dall’estremità della suola e che di tanto in tanto agita per sgranchirsele.

Io sono qui che ti scrivo e aspetto che mi guardi (ma lei mi ignora apposta) e so che tra poco l’emozione sarà inarrestabile, dovrò abbandonare il tavolino e tornare in albergo per toccarmi in santa pace pensando a quelle cosce, a quegli alluci, a quel tacco. Quand’ecco che una dietro di lei – una tardona mezza rifatta mezza no – si guarda attorno mentre il suo accompagnatore, di spalle a me, è tutto perso nello schermo della sala; mi vede e mi sorride con le labbra rigonfie sotto il nasino scolpito ad angolo perfetto. Ha smesso di piovere, finalmente; il vento è cambiato e sembra portarmi un intenso odore di donna bagnata.

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