martedì 29 giugno 2010

Durante la scorsa settimana

Durante la scorsa settimana aver lavorato troppo perché venerdì sera, mentre mi trovavo a Londra e avevo appena finito, rendendomi conto di avere un'ultima oretta libera prima del treno sono andato dritto a Soho per scaricarmi.

Non sono di quelli che vanno a puttane per compensazione. Se non faccio l'amore per un certo periodo tendo a non pensarci troppo, quasi me ne dimenticassi; e quando il desiderio diventa bisogno lo zittisco con una rapida sega. Io tendo a voler fare l'amore sempre di più quando già lo sto facendo; divento bulimico e quando ho una donna la desidero tutta, quando vengo una volta voglio venire sempre. Mi autoalimento.

A Soho ci sono porticine sempre aperte ncon l'incerta scritta stampatella "model" su un pezzo di cartone; e sotto la scritta una freccia che indica la via sulle scale fatiscenti. Le ho salite sapendo che la sera prima la Fidanzata mi aveva fatto godere tanto (un'altra volta ti spiegherò come) e che l'avrei rivista la sera tardi e tutto il weekend a seguire. Ma in quell'istante il desiderio principale era di sopperire alla sua assenza ed esercitare il dominio del maschio che paga anche quando potrebbe non permetterselo.

C'è anche la componente del mistero. Si compra a scatola chiusa: si viene introdotti in una camera da letto da una vecchia che attende guardando la tv in uno stanzino e le si lasciano due sterline prima che chiuda la porta. Quasi mai, per fortuna, la puttana e la vecchia coincidono, ma il fattore che fa balzare il cuore è non sapere mai che corpo seguirà la mano che aprirà la porta. Il breve dialogo sui soldi - le tariffe sono appese chiare dietro la porta - serve più che altro a scrutare la donna che è apparsa in guepiere.

Mi era capitata una spagnola, catalana anzi, un po' troppo larga ma dal viso dolce, occhioni vaccini; e vaccino era anche il seno che premeva contro il reggipetto come se volesse uscirne non esplodendo ma tracimando: un seno morbido, pastoso, di zucchero e miele. Il treno imponeva un orario rigido, quindi senza frapporre indugio avevo comandato un pompino consegnandole venti sterline; ripostele, s'è seduta sul bordo del letto e ha iniziato a succhiarmi dopo avermi calato i calzoni e ficcato il preservativo alla bell'e meglio.

Questi scabri pompini fra estranei mossi solo dalla fretta e dal denaro, dal senso di dominio sul corpo e sul portafoglio altrui, possiedono una sessualità intrinseca se si riesce a non considerarli un atto sessuale come gli altri ma una parte recitata sull'agone del potere. Con questa catalana m'intendevo, pare; era chiaro che entrambi avremmo preferito essere altrove ma, giacché c'eravamo, ritenevamo meglio giocare fra noi che con qualcun altro.

Ci accontentavamo a cuore sereno, insomma, lei delle mie venti sterline e io delle sue labbra. Per questo, dopo averle liberato i seni e cercato di stringerne ciascuno in una mano, le avevo tolto il cazzo di bocca ed ero saltellato fino al comò per aggiungere altre dieci sterline. Tariffa successiva: si scopa.

Doveva aspettarselo perché si era levata in un sol botto la guepiere e si era sdraiata nuda a gambe larghe. Io invece avevo conservato camicia sbottonata e calzoni alle caviglie e le ero entrato dentro forsennato, mentre lei si lasciava andare a gemiti ricchi d'inventiva. Mi sono fermato e restando sopra di lei le ho detto che non mi piace la puttana che finge; preferisco quella che aspetta più o meno rassegnata che io abbia concluso. S'è calmata e ha iniziato ad assecondare i miei movimenti coi suoi mentre mi inarcavo per prenderle un seno in bocca, succhiarglielo, mordere questo capezzolo prominente e ricurvo come un polpastrello mentre le accarezzavo i capelli lunghi e neri. Quando mi ha baciato a labbra chiuse un punto indefinito della spalla sono venuto - dentro di lei, dentro al preservativo - perché non mi aspettavo tanto affetto.

Il treno potevo ormai prenderlo al volo, nel caso più ottimista (a Londra la metropolitana non sempre funziona bene). Mi sono sfilato da lei e ho iniziato a levarmi il profilattico; ma mi ha fermato con una mano e l'ha srotolato dolcemente, pulendomi il cazzo con un fazzoletto profumato e sorridendo mentre mi diceva: "Lo faccio io, è il mio mestiere".

lunedì 21 giugno 2010

Ma, come ti ho già detto

Ma, come ti ho già detto, la mia intenzione per la giornata appena aperta era di fare tutt'altro. Nel primo pomeriggio, quando l'aria si era ormai riscaldata del tutto e il sole sempre più insistente scopriva le ragazze che brulicavano lungo la Senna, sono andato all'imbocco di Boulevard Saint Michel per prendere un café noisette. Costa tantissimo, sedersi ai tavolini esterni ammirando da un lato la fontana monumentale con l'Arcangelo e il demonio e dall'altro le torri squadrate di Notre Dame; ma ne vale la pena perché si riesce sempre a imbattersi in qualche donna sola.

Mi ero sistemato poco dietro una giovane bionda, di tre quarti rispetto a lei, in maniera tale da non perderla mai d'occhio mentre fingevo di scrutare il brulicame e godermi il venticello tiepido. I capelli lisci e fini le scendevano fino a mezza schiena ed erano di un chiarore scandinavo che, acceso dal sole, tendeva quasi al bianco. La vita minuta era fasciata da un abitino leopardato che sui suoi movimenti aggraziatinon sembrava volgare, tanto più che il disegno era a macchie piccole e discrete; dall'apertura inferiore sbucavano gambe calzate da collant scuri, con un lieve ma costante arabesco nero che correva lungo tutta laa loro lunga superficie. Probabilmente delle autoreggenti, ma la giovane bionda era cautissima a non mostrare la giarrettiera nemmeno quando le allungava sotto il tavolino; nemmeno quando, facendomi balzare il cuore in gola, si era data all'inseguimento di un menù fatto volare via dal vento levandosi in piedi e mostrandomi tutt'a un tratto un corpo perfetto.

Come molte persone sole leggeva. Aveva comprato da una bancarella dell'usato il Britannico di Racine, che visto lo stato in cui era ridotto non doveva esserle costato più di una cinquantina di centesimi; sicuramente non era francese e mi faceva tenerezza la maniera in cui si affannava su ogni verso e misurava gli endecasillabi sulla punta delle dita, compitandoli a labbra mute.

Leggevo anch'io, con l'occhio che non la guardava, le prime pagine dell'Histoire d'O che avevo comprato in un precedente viaggio a Parigi e non avevo mai avuto tempo di iniziare. Cercavo di nascondere, tenendolo posato sul tavolino, il titolo del libro; ma al contempo desideravo che lei si voltasse per un attimo e scorgesse in copertina questo corpo di donna, esposto dal collo al ginocchio, coperto da un abitino di seta davanti al quale si giungevano le mani costrette da due manette ai polsi. Leggevo il celebre doppio incipit della storia di O condotta al castello di Roissy, dove intuisce che incontrerà i suoi padroni ma senza capirlo appieno, seduta di fianco al proprio innamorato che l'ha spinta a togliersi le mutandine e a posare sul cuoio del sedile posteriore di un taxi il culo e le cosce nude. Vedevo il vestitino leopardato della giovane bionda - ancora lì intenta a sorbire un'orangina e a controllare gli endecasillabi di Corneille - sollevarsi mentre entrava in un'auto e rivelarne la fica che di lì a poco si sarebbe sciolta sul sedile al pensiero della propria forzata remissività; e riga dopo riga, pagina dopo pagina, O aveva sempre più i suoi capelli biondi e il suo musetto volpino.

Al passaggio del cameriere gli faccio un segno e, Monsieur, gli dico, pago il mio café noisette e (indicandola) l'orangina di mademoiselle. Il cameriere arriccia il nasoe mi chiede se elle il sait; non lo sa, gli spiego, ma ciò nondimeno vorrei pagarla io. Lui allora fa ciò che mai un cameriere dovrebbe fare: va dalla giovane bionda a controllare lo scontrino, infilato sotto un posacenere per impedire che voli via, e le fa segno della mia profferta. La giovane bionda si volta verso di me e finalmente posso guardarla con attenzione, interpretarne la bellezza. Ha il mento aguzzo e lineamenti da carboncino, un taglio di occhi severissimo. Mi passa da parte a parte con il suo sugardo azzurro e protesta, Mais non, lei non si farà pagare. Le gambe si accavallano nervosamente, una preclara visione dell'arabesco nero sulle sue cosce mi balena sotto il naso. Cerco di insistere spiegandole che non ho secondi fini, che vorrebbe essere un omaggio alla sua bellezza altera e agli endecasillabi di Corneille sparsi sui suoi polpastrelli; ma lei non vuole sentir ragione e il mio francese non è così convincente.

Estrae il portafoglio e paga l'orangina di tasca sua, mentre sulle pagine del mio libro O perde poco a poco le sue fattezze volpine per riacquistare quelle che il narratore le aveva conferito; gli endecasillabi di Corneille tornano a scorrere sulle dita della giovane bionda, che avevo creduto schiava e invece era padrona, mentre penso che la vittoria in guerra passa anche da tante battaglie perdute con classe.

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Ho controllato meglio, il Britannico è di Racine.

domenica 20 giugno 2010

Avresti dovuto vedere

Avresti dovuto vedere con che erezione mi sono svegliato stamattina, perché era tutta tua: non la colpa, o il merito, dell'erezione così potente e cristallina ma l'erezione stessa. Era nata nel mio cervello quando nel tardo pomeriggio di ieri, tornando sfinito dal lavoro e sprofondando nei sedili della RER parigina, ti avevo scritto che un giorno avrei voluto fare l'amore con te invece di scoparti o fotterti o sfondarti o spaccarti come desideriamo sempre. Tu avevi taciuto e mi era montato in testa il dubbio che potessi essertela presa (chi le capisce mai le donne?) e che potessi essere rimasta scioccata perché il sesso è accettabile ma l'affetto forse no.

Stavo cenando da amici quando mi hai risposto che non resti mai sscioccata da nulla, l'avevo forse dimenticato? No che non l'avevo dimenticato, ricordo sempre quando ti lanciavo in petto il sasso di una proposta sconcia inaccettabile e tu rispondevi col tuo vocino malizioso: "Non istigarmi..." Quando mi ero liberato dagli amici, ormai quasi a mezzanotte, avevo cercato di tradurre in parole l'eccitazione crescente mentre risalivo il boulevard Saint Michel immaginandoti al mio fianco; ti avevo scritto che allora volevo accarezzare il tuo volto e il tuo corpo come se non avessi avuto altro pensiero negli ultimi dieci anni, e poi tutt'a un tratto assoggettarti al mio piacere e godere di te come della più vergognosa ossessione pornografica.

Una volta in albergo ero troppo stanco per restare sveglio. Sono crollato sperando, presagendo, sapendo che al mattino dopo, riacceso il telefonino, l'avrei sentito vibrare della tua risposta. Non potevi restare indifferente, anche se talvolta giochi a fare la capricciosa muta. E infatti - appena sveglio ho visto lo schermo illuminarsi e te che mi dicevi, alle 2:18 della notte, che ti addormentavi con le mie carezze e le mie ossessioni.

Allora ho sentito che, coltivata pazientemente per lunghe ore, la mia erezione per te era finalmente fiorita del tutto. Mi sono levato il pigiama e il cazzo s'è fatto strada dalle mutande, duro, elevato, con la cappella dilatata in un sospiro infinito. Nudo sono arrivato in bagno e mi sono guardato nello specchio. Sembravo uno di quei telamoni erotici che un tempo si mettevano all'ingresso dei bordelli di buon livello e sul cazzo dei quali le damine a pagamento posavano il copricapo o il mantello dei loro clienti per fare le spiritose. Ma nella mia immaginazione tu non eri una damina, non questa volta: eri il telamone donna sistemato in corrispondenza della colonna parallela, ritta all'altro lato del portone d'ingresso con le gambe chiuse ma seno e pelo ben in vista.

Mi sono messo di profilo davanti allo specchio. La protuberanza del cazzo, così, era ancora più oscena: sembrava protendesi alla ricerca (purtroppo vana) delle tue mani, della tua bocca. Ho visto la tua immagine chinarsi mansueta nello specchio e accogliere la mia erezione - la tua erezione - fra le labbra appena socchiuse; ma non mi sono toccato perché oggi ho in programma qualcosa d'altro e non potevo godere già alle nove del mattino.

Volgio portarmi dentro lo sperma che le tue parole hanno fatto ribollire, sentirlo fremere e agitarsi nei miei coglioni - e poi venire, con tormento e liberazione, quando non riuscirò più a contenerlo e ogni goccia sarà per te.

giovedì 17 giugno 2010

Il posto dove lavoro

Il posto dove lavoro in questi giorni a Parigi è un inferno di vetro e acciaio dall'aria malsana e dalla burocrazia frustrante. Mi ha fatto sorridere, dopo ore di sofferenza, solo il tuo imprevisto e inatteso messaggino che mi ha diffuso dentro un po' di sollievo. "Cosa succede nella tua vita?" mi hai chiesto - presumo insospettita dal tono delle mie ultime mail e dei miei ultimi tentativi di contattarti. Allora ho fatto l'unica cosa decente che si possa fare in questo posto, ovvero alzarmi e camminare lungo un infinito corridoio insonorizzato girando quattro angoli fino a tornare alla mia postazione di partenza; e nel lungo itinerario ti ho scritto che lavoro con poca convinzione perché il mio mestiere non mi piace né mi sembra di essere in grado di farlo; che ho troppi impegni accavallati, che mi alzo ogni mattina alle sei, che leggo e scrivo di continuo; che viaggio troppo (e ti ho elencato nel dettaglio i sette passaggi di frontiera che da tre mesi fa a oggi si sono aggiunti al peso di vivere all'estero) e che sto cercando casa per la terza volta in un anno. Ti ho scritto che rimpiango - così, in assoluto, senza complemento oggetto. Poi ho aggiunto che sono un fidanzato irreprensibile in superficie, che non ho tempo materiale per l'adulterio anche se ci penso spesso (o chissà, magari sono invecchiato e non sono più capace), che mi masturbo ormai soltanto per ricordi ancorché vividi ma non più per fantasie o speranze; e infine che riempio questo quaderno, il tuo.
Ora hai risposto al mio enorme messaggino; quando sento il telefonino vibrare in tasca e leggo che sei tu il sollievo diventa più completo, mi congiunge in linea retta il cervello e lo stomaco e il cazzo. Purtroppo sei sfuggente e accade poco spesso, mi piacerebbe averti di più, anche così distante migliaia di chilometri.

mercoledì 16 giugno 2010

Sono a Parigi

Sono a Parigi da meno di due ore e già mi sento addosso un’eccitazione incontrollabile, che non si traduce nella reazione fisica più comune e diffusa ma in uno stato di attenzione mentale mai sopita, come se da qualsiasi angolo potesse spuntare un’occasione sensuale irripetibile. Sarà la fama che questa città s’è costruita nei secoli, sfrenata e libertina; sarà l’improvvisa sensazione di vita brulicante che rinasce appena uno ci mette piede; saranno le frotte di ragazzine in vacanza, dall’America o dall’Olanda, che vanno in giro per il cinquième arrondissement ridendo estasiate e quasi sembra di vedere i prumi succhi che colano dalle loro fichette e si spargono sui marciapiedi in un labirinto di piaceri promessi che cerco d’inseguire e nel quale immancabilmente mi perdo, visto che alla fine non attacco mai discorso con nessuna – ma mi limito a guardarle e desiderarle e sospirare inerte mentre passo al loro fianco.

E’ per questi stessi motivi che ami Parigi anche tu? Vedi i maschi, li senti, li desideri e li insegui – o te ne senti inseguita ovunque, nelle strade più luminose e negli angoli più bui?

Non lo so. Io amo Parigi soprattutto per le negre, che qui prendono un’aria di sovrana irraggiungibilità mentre sembrano crescere di numero (sono tantissime, sono innumerevoli, sono sempre di più), di altezza (sembrano torreggiare sul mio povero ego mentre mi passano accanto, ingiungendomi mute dal loro sommo di non allungare la mano quel tanto, pochissimo, che basterebbe a sfiorarne le carni) e di stazza (sembra che in proporzione guadagnino seni e culi di dimensione inenarrabile; diventano delle Veneri ancestrali che ondeggiano per strada traballando sotto il peso di queste zone erogene che le fanno quasi parodia di una femminilità assassina).

C’è di fronte a me – sono seduto ai tavolini esterni di un caffè all’imbocco del boulevard Saint Michel – c’è di fronte a me una negra sola con due bicchieri d’acqua sul tavolino. Al polso destro porta un bracciale rosa e con la mano si accarezza i capelli quando non controlla i messaggi sul blackberry e scrive qualcosa che non scoprirò mai nell’agendina in pelle. Indossa una giacca estiva sotto la quale porta un vestitino violetto che le arriva a mezza coscia. Le gambe sono accavallate. Ai piedi ha dei calzoni con dei lacci che le salgono fino al polpaccio; il tacco non è molto grande ma fa venire voglia di andare lì a leccarglielo, così, davanti a tutti, sperando che si decida a infilarmi in bocca anche le punte dei piedi che sporgono di mezzo centimetro dall’estremità della suola e che di tanto in tanto agita per sgranchirsele.

Io sono qui che ti scrivo e aspetto che mi guardi (ma lei mi ignora apposta) e so che tra poco l’emozione sarà inarrestabile, dovrò abbandonare il tavolino e tornare in albergo per toccarmi in santa pace pensando a quelle cosce, a quegli alluci, a quel tacco. Quand’ecco che una dietro di lei – una tardona mezza rifatta mezza no – si guarda attorno mentre il suo accompagnatore, di spalle a me, è tutto perso nello schermo della sala; mi vede e mi sorride con le labbra rigonfie sotto il nasino scolpito ad angolo perfetto. Ha smesso di piovere, finalmente; il vento è cambiato e sembra portarmi un intenso odore di donna bagnata.